Lo Scriptorium Foroiuliense ha sede a San Daniele del Friuli, Via Udine n° 2, all’interno del seicentesco ex Convento dei Padri Domenicani di Madonna di Strada.

Varcando la soglia dell’ingresso della Scuola Italiana Amanuensi, subito si viene proiettati in un tempo antico dove ORA ET LABORA doveva essere la parola d’ordine di uomini dediti alla preghiera ed allo stesso tempo alla divulgazione e conservazione dell’arte libraria.

Il Chiostro dello Scriptorium è costituito da un’area centrale a forma quadrata e scoperta, circondata da un portico ad arcate in pietra dove è collocato l’OPIFICIUM LIBRORUM.

Durante l’anno migliaia sono i visitatori, provenienti da tutto il mondo, attratti da mastri Cartai, Amanuensi, Miniaturisti e Legatori che in abito d’epoca espongono ed illustrano i loro antichi mestieri.

Diverse sono le offerte per le diverse esigenze che i visitatori possono richiedere, infatti oltre alla visita dell’Opificium Librorum è possibile creare dei pacchetti composti da VISITA OPIFICIUM+WORKSHOP (scrittura, realizzazione carta, miniatura, legatura).

Gli ampi spazi a disposizione e la vicinanza all’area di sosta di pullman e corriere ci permettono di poter ricevere gruppi di visitatori molto ampi (in una giornata anche 300 persone).

Visite e prezzi:

Visita Opificium Librorum: 6 €/persona (durata 40 minuti)
Visita Opificium Librorum + Workshop Scrittura: 10 €/persona (durata 40 minuti + 1 ora)
Visita Opificium Librorum + Workshop Miniatura: 10 €/persona (durata 40 minuti + 1 ora)
Visita Opificium Librorum + Workshop Legatura: 10 €/persona (durata 40 minuti + 1 ora)
Visita Opificium Librorum + Workshop realizzazione carta: 10 €/persona (durata 40 minuti + 1 ora)

Numero minimo di partecipanti: 10
È necessaria la prenotazione.

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Cose che posso imparare e vedere nell’OPIFICIUM LIBRORUM:

La pergamena

La pergamena deriva il suo nome dalla città ellenistica di Pergamo, nell’attuale Turchia, che ne fu uno dei primi e più importanti centri di produzione fin dai tempi del re Eumenes, secondo la testimonianza di Plinio, il quale avrebbe utilizzato tale materiale già a partire dal II secolo a.C. durante un embargo commerciale imposto sul papiro, materiale che poi venne del tutto soppiantato solamente nel corso del IV secolo dell’era cristiana.

Si utilizzavano generalmente pelli di ovini (caratterizzate da un colore tendente al giallognolo) o di bovini, che nel caso di capi adulti potevano raggiungere anche grandi dimensioni, adatte ad esempio alla realizzazione delle monumentali bibbie atlantiche.

I formati di piccolo taglio, bianchissimi e quindi estremamente pregiati, si ricavavano invece da velli uterini di animali morti prima della nascita: in tal caso i fogli venivano destinati a manufatti di straordinaria bellezza e preziosità quali i libri d’ore, destinati per lo più a signore di alto rango, dame o badesse che fossero. Il processo per la realizzazione dei fogli di pergamena era piuttosto lungo e complicato.

La pelle dell’animale scuoiato veniva accuratamente lavata in acqua fredda corrente e quindi passata in vasche di pietra o di legno per agevolare la caduta dei peli; quindi veniva immersa in un bagno di calce viva per essere ripulita dalla carne residua.

Tale processo poteva durare dai tre ai dieci giorni. Tesa su di un telaio a forma di scudo attraverso un sistema di cordicelle la cui tensione era regolata da speciali morsetti (spesso si notano ancora piccoli forellini ai margini del foglio) ancora umida, veniva ulteriormente ripulita e decorticata con una lama a forma di mezzaluna.

Molti erano gli espedienti per accentuarne la bianchezza: in genere si utilizzavano pietre pomici, o sostanze sbiancanti quali il gesso. Quando la pelle si era ormai trasformata in uno strato secco, fine e opaco, poteva essere arrotolata ed era pronta per essere utilizzata. Ovviamente i risultati della lavorazione non erano sempre ottimali.

Gli animali domestici potevano infatti soffrire di diverse malattie, ed erano soggetti a punture di insetti che procuravano al vello lesioni difficilmente sanabili. I buchi naturali nei fogli di pergamena sono pertanto frequenti e inducevano i copisti a scriverci tutto intorno dimostrando una maestria e un’ironia senza pari.

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La carta

La carta è un’invenzione cinese che risale addirittura al secondo secolo dell’era cristiana. Il segreto della sua lavorazione giunse in Occidente importato dagli arabi fra il XII e il XIII secolo.

Documenti d’archivio attestano la presenza in Spagna di mulini per la produzione di carta già a partire dal XIII secolo. Di qui si diffusero in Francia e in Italia.

Per la sua lavorazione si selezionavano stracci bianchi che venivano lavati accuratamente e quindi lasciati fermentare per quattro o cinque giorni. Tagliati a pezzi, venivano risciacquati e quindi fatti ancora macerare per almeno altri sette giorni, alternando alla macerazione fasi di battitura fino a che non si produceva una sorta di pappa collosa e fluida, che veniva fatta scivolare in una enorme tinozza. Da qui veniva raccolta in un telaio che ne imprigionava le fibre bagnate; il contenuto veniva deposto su di un panno di feltro. L’operazione di ripeteva formando uno pila di strati di fogli di carta e di panni di feltro alternati. Si procedeva quindi alla pressatura per togliere l’acqua in eccesso; a questo punto i fogli di carta potevano essere messi ad asciugare.

A partire dal 1300, i produttori di carta europei iniziarono a inserire nell’intreccio del telaio dei bolli rappresentanti immagini di diverso formato: teste di bue, fiocine, frecce, emblemi che in tal modo rimanevano imprigionati nello spessore della carta: si tratta delle filigrane, visibili controluce, che con il tempo contraddistinsero le diverse officine da cui provenivano i fogli. Una sorta di marchio di fabbrica, utilissimo oggi per ricostruire la provenienza e la nascita di un manoscritto.

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La penna d’oca

Al fine di una buona scrittura su pergamena o carta, le penne migliori si ricavavano dalle remiganti di oca o cigno.

Per un copista destrorso erano più confortevoli le penne dell’ala sinistra dell’uccello, in quanto avevano una naturale curvatura che ben si adattava alla mano destra dell’amanuense.

Le piume, per essere rese più dure, venivano fatte essiccare per qualche mese, trattandole con acqua e quindi immergendole in vaschette piene di sabbia incandescente.

Un corto coltellino permetteva di tagliare le punte finali da entrambi i lati a forma di pennino.

La pellicola di grasso esterno e il midollo venivano quindi soffiati via agevolmente e la penna, sfrondata di tutte le piume, diveniva così un tubicino vuoto oltremodo adatto a raccogliere gli inchiostri. Il taglio doveva essere ripetuto più volte nel corso della scrittura in quanto la punta tendeva ad allargarsi a causa dell’uso.

Si calcola che un copista poteva ripetere l’operazione anche una sessantina di volte nel corso di una giornata di lavoro. Assieme alla penna veniva anche comunemente utilizzato il calamo. Si tratta di uno strumento antichissimo. Lo si ricavava da una canna di giunco spuntata con un coltellino che conferiva un taglio di diversa inclinazione, a seconda delle necessità grafiche richieste.

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L’inchiostro

Negli antichi scriptoria l’inchiostro era contenuto in un calamaio ricavato da un corno inserito in un buco operato nella ribalta di legno o più recentemente da un contenitore simile a un porta lampada posto accanto al piano di lavoro. Ne esistevano anche di portatili, dotati di una tappo a vite e legati tramite una cordicella all’astuccio oblungo in cui si custodivano penne e calami.

In ogni biblioteca le ricette per la fabbricazione degli inchiostri sono numerose, e così anche in Guarneriana se ne conservano diverse.

La più diffusa era a base di noce di galla (un’escrescenza prodotta in alcune piante da un parassita) mescolata a una soluzione di acido tannico e solfato di ferro. Vi si aggiungeva poi gomma arabica, ovvero resina di acacia, che serviva come addensante. Il colore di questo tipo di inchiostro era marroncino scuro, destinato a brunirsi sempre più nel tempo per ossidazione. Nei manoscritti sono frequenti le rubricature, ovvero le scritte in colore rosso.

Le si ritrova nei titoli, nelle glosse, spesso nei calendari, o nei breviari liturgici a sottolineare le parti formulari. Il vermiglio si otteneva dal solfati di mercurio mescolato a chiara d’uovo e gomma arabica.

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I colori delle miniature

Il decoratore di manoscritti aveva a sua disposizione una gamma estremamente vasta di sfumature cromatiche con cui abbellire le pagine che gli venivano commissionate.

Il rosso: si poteva ricavare dal solfato di mercurio. La principale area di estrazione si trovava presso Siena, sul monte Amiata; il vermiglio: il riscaldamento del mercurio misto a zolfo produceva un vapore denso di accumuli che raccolti e tritati producevano il pigmento. Era una mistura piuttosto velenosa; il rosso rubino: si otteneva dalla pianta della robbia che cresce diffusamente in Italia; il blu: è dopo il rosso il colore più comune nei manoscritti medievali. Lo si ricavava dall’azzurrite, una roccia ricca di rame, oppure dai semi della crozophora, una pianta simile al girasole. Quello di maggior pregio veniva tuttavia ottenuto dalla polvere di lapislazzuli, proveniente dall’Afganistan; la doratura: si poteva ottenere in tre modi diversi. Si abbozzavano i contorni del disegno sulla pergamena, quindi vi si incollavano lamine d’oro che a secco sarebbero state lucidate utilizzando un dente di cane, di gatto o di leone affisso su di un manico di legno o di avorio; oppure si predisponeva un fondo di intonaco che avrebbe conferito alla doratura un effetto tridimensionale: su questo infatti si applicava la lamina d’oro che una volta lucidata e cesellata conferiva al disegno, comunemente un capolettera, una caratteristica rigonfiatura che catturava la luce da più angoli, rendendo l’opera particolarmente luminosa e sfavillante. Infine si poteva utilizzare la tecnica detta della conchiglia: all’interno di una conchiglia infatti, solitamente di cozza o di ostrica, si mescolavano assieme polvere d’oro e gomma arabica a formare un inchiostro dorato, che veniva alla fine apposto utilizzando la penna o il pennello.

L’intonaco era una sostanza realizzata a base di gesso e piombo. L’aggiunta di miele agiva come sgrassante. Se ne ottenevano delle palline che potevano essere conservate per lungo tempo. Al momento necessario venivano frantumate in acqua pulita e chiara d’uovo. Veniva infine applicata con una penna d’oca. Il tempo migliore per farlo era al mattino: l’umidità agevola l’applicazione, tanto che il miniaturista deve spesso alitare sulla pagina per consentire all’intonaco di mantenersi appiccicoso.

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La posizione dell’Amanuense

Come si evince da numerose miniature il copista siede su scranni piuttosto alti presso a un tavolo inclinato, che probabilmente era collegato alla sedia attraverso un sistema di cardini che permettevano all’amanuense assumere la posizione più consona.

Il manoscritto originale veniva poggiato ad un leggio posto vicinissimo al tavolo di lavoro, alle volte ad esso assicurato attraverso un braccio mobile di legno. I codici erano tenuti aperti con l’ausilio di pesi e cordicelle.

I copisti sedevano su sedie molto alte (giudicando dal materiale iconografico) di fronte a un tavolo inclinato. L’inclinazione era estremamente ripida, giungendo quasi a novanta gradi, e questo per agevolare il funzionamento della penna d’oca: in questo modo il movimento della scrittura era quasi interamente incentrato sul braccio e la mano non toccava mai la superficie del foglio.

Poco prima di cominciare la copiatura si raschiava per un’ultima volta il foglio di pergamena con pomice e gesso per ammorbidirla e per rimuovere l’eventuale patina di grasso formatasi durante la manipolazione.

Durante tutta l’azione della scrittura l’amanuense teneva in mano un coltello, utilizzato sia per appuntire la penna che per erodere tempestivamente gli eventuali errori prima che l’inchiostro venisse assorbito dal foglio.

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Lo specchio di scrittura

Prima di cominciare a scrivere era necessario impostare sul foglio lo specchio di scrittura, ovvero tracciare i margini e le righe che avrebbero dovuto accompagnare l’amanuense delimitandone lo spazio scrittorio.

Si trattava di un lavoro lungo e piuttosto noioso. Generalmente si prendevano le misure sulla prima e sull’ultima pagina di un fascicolo, mantenendolo aperto.

Sull’estremità di ogni riga veniva marcato un punto che attraversava l’intero pacco di fogli sovrapposti. I punti guida erano così visibili su ogni foglio: unendoli si otteneva quanto desiderato.

Generalmente i segni venivano prodotti utilizzando stiletti, coltellini o punteruoli. Agli inizi del secolo XII si fanno risalire le prime righe tracciate con una punta di grafite o più comunemente di piombo.

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La Rilegatura

Alla fine delle operazioni di scrittura il manoscritto risultava costituito di fascicoli sciolti, se non addirittura di fogli separati. Era quindi necessario procedere ad un’operazione di legatura. I fascicoli si assicuravano fra di loro con cuciture operate lungo la piega centrale.

I vari fascicoli poi venivano uniti assieme all’interno di una copertina utilizzando fascette, cinghie e lacci uniti orizzontalmente al dorso del codice attraverso una nervatura.

I piatti che custodivano i fascicoli erano generalmente di legno. Quercia, pino e faggio i più comunemente utilizzati.

L’uso del cartone iniziò a diffondersi solo a partire dal tardo XIV in Europa meridionale. Spesso i piatti venivano ricoperti da coriami colorati e decorati con uno strumento metallico reso incandescente. Per evitare che la pergamena dei fascicoli si increspasse, spesso la copertina veniva dotata di fibbiette per mantenere salda la chiusura.

Si potevano trovare anche quattro borchie poste sui quattro angoli utili a mantenere una certa distanza fra le copertine dei manoscritti, che venivano riposti sugli scaffali delle biblioteche appoggiandoli orizzontalmente e non verticalmente.

Spesso le copertine dei manoscritti erano impreziosite da tessuti rari se non addirittura da metalli finemente cesellati e fregiati di pietre preziose.